Operaio alla V Sezione della Breda
14.03.1944 data dell’arresto, 38 anni
Nato nella bassa bergamasca nel 1905, emigrato a Sesto S. Giovanni, ha lavorato prima alla Falck poi alla Breda Aeronautica.
Fa attività politica clandestina sia dentro che fuori la fabbrica, insegna violino in casa e parte di quel che guadagna lo destina ai partigiani. A Sesto ha avuto più volte problemi con i fascisti; Melania Gervasoni, la moglie, che teme per lui, gli chiede di interrompere le sue attività clandestine; lui continua di nascosto anche da lei.
Viene arrestato la notte fra il 13 e il 14 marzo 1944, la moglie lo vede per l’ultima volta a Bergamo, prima in carcere e poi sul treno; non lo vedrà più.
Dopo la liberazione, di Guido non arrivano notizie, i sopravvissuti tornano, lui no, la moglie fa domande al Ministero della Postbellica, ai deportati tornati e ai loro familiari; visita anche l’avvocato Pugliesi, un sopravvissuto che aveva portato da Mauthausen un registro con i nomi dei deportati.
Accanto a al nome di coloro che erano morti c’era una croce; erano quasi tutte croci. La pagina in cui avrebbe dovuto esserci il nome di Valota è rovinata da bruciature; per Melania è un segno di speranza ma poi a Bolzano, in un altro registro compilato in base alle testimonianze dei deportati sulla via del ritorno, il suo nome figura tra i morti. Quando infine parla con altri due sopravvissuti che lo avevano visto morire, ogni speranza è persa.
Il figlio di Guido, Giuseppe Valota, è riuscito a ricostruire la storia del padre.
Giunto a Mauthausen viene trasferito a Gusen, poi a Schwechat, poi a Floridsdorf. Muore nella “marcia della morte” di trasferimento da qui a Mauthausen; duecento chilometri, a piedi, facendo strade secondarie per non ostacolare la marcia dei militari tedeschi che da est rientrano verso ovest per sottrarsi alle forze sovietiche.
Quando si dorme, si dorme all'aperto; negli otto giorni di marcia, piove per sette giorni consecutivi, come risulta dalle ricerche dell'Ufficio Meteorologico di Vienna.
Valota crolla in terra dopo aver attraversato il secondo ponte, nella cittadina di Steyr, gli altri cercano di tenerlo in piedi ma non ha più forze. I soldati gli sparano alla nuca e gli tolgono le matricole dalla divisa perché non sia più identificabile.
La fine del padre è stata raccontata a Giuseppe Valota da un altro deportato, Adamo Sordini, che lavorava all'Innocenti di Milano. Sordini ricordava una cittadina con due fiumi e due ponti, ma non ne conosceva il nome, dopo lunghe ricerche capisce che la cittadina con due ponti e due fiumi tra Vienna e Mauthausen non può essere che Steyr, a sud di Linz:
«Ho trovato anche il luogo esatto dove gli hanno sparato. Ho voluto sapere dove fossero i suoi resti. Dato che a Steyr c'era un campo di concentramento ho pensato l'avessero portato lì e sepolto in fosse comuni. Invece ho scoperto che, già dagli anni Venti, c'era un forno crematorio non nel campo, ma nella città. Al cimitero di Steyr c'è un monumento con 350 urne senza nome che contengono i resti di persone bruciate in quel crematorio. Persone di cui non si sa nulla. Lì dentro, al di là di ogni ragionevole dubbio, ci sono anche i resti di mio padre [...] sono uno dei pochi fortunati che ha potuto ricostruire la storia di suo padre».
Le ricerche di Giuseppe Valota, operaio, presidente dell’ANED di Sesto S. Giovanni, sono durate oltre quindici anni, hanno dato un nome e un volto a 553 lavoratori deportati nei lager e a 9 prigionieri fuggiti dai vagoni piombati.